CENERE E SAPONE / Intervista di Silvia Guidi a Alessandro Berti

L'Osservatore Romano, 15 luglio 2011


Come è nato l'interesse per la forma-teatro?

Del teatro ho fin da piccolo amato gli edifici: le grandi sale all'italiana, con le file di palchetti, i lampadari, il silenzio. Era quanto di più distante ci fosse dall'appartamento della mia famiglia, era una via di fuga nel centro esatto della città, un luogo pieno di promesse. La prima volta che andai a teatro (a vedere un Berretto a Sonagli con mia madre, avrò avuto otto anni) mi colpì profondamente il rapporto tra quel silenzio, quei velluti, quel buio e le voci degli attori, mi sembrò qualcosa di magico, e ancora mi sembra.
A casa ero un guitto, annoiavo i miei con imitazioni di personaggi famosi, cantavo continuamente. Questo fare guittesco continuò fino all'adolescenza, con le recite in parrocchia. Poi, dopo il liceo presi una decisione importante: non andare all'università ma fare la scuola del Teatro di Genova. Da qui comincia il mio apprendistato professionale. Tutta la mia vita è, rispetto al teatro, un tentativo di purificare in me questa precoce vocazione da tutti i rapporti con la socialità spicciola, da tutte le influenze del pubblico sull'attore, che voglio sia strumento puro, non funzionario o animatore. Gli applausi delle recite famigliari e di quartiere hanno nutrito per anni la mia presunzione e la mia identificazione con le abilità più superficiali ma l'immagine iniziale del teatro silenzioso aveva deposto in me un misterioso gomitolo di significato che avrei dipanato negli anni, e che ancora sto dipanando.

Quali sono stati (e sono) i tuoi maestri?

Avendo studiato in un'ottima scuola artigianale come quella di Genova, l'idea di maestro era del tutto estranea a quel tipo di formazione, o meglio ci entrava ma nel senso di mastro, di padrone della bottega. Devo molto a questa brusca praticità, mi ha aiutato a rendere concreto il fare scenico, a pulirlo da tutti gli intellettualismi e i velleitarismi con cui arrivai a Genova dalla ricca e scolarizzata Emilia. Solo più tardi ho conosciuto artisti che avrei potuto chiamare maestri ma rimango restio a usare questa parola per cose teatrali. I miei insegnanti a Genova mi hanno insegnato le basi del mestiere. Poi devo molto a Leo de Berardinis, che ha prodotto (e per molti versi ispirato) i miei primi lavori a Bologna a metà degli anni '90, a Claudio Meldolesi, studioso di teatro e intelligenza calda e appuntita e infine a Yoko Muronoi, una danzatrice giapponese che in tre giorni mi ha mostrato per la prima volta la possibilità di portare sulla scena elementi di una personale ricerca spirituale.

Come reagisce il pubblico, ma soprattutto, come reagiscono gli "addetti ai lavori"? Non dev'essere facile muoversi in un ambiente che ostacola apertamente o tollera con lieve disprezzo tutto ciò che tratta la "categoria del religioso"

Mi sembra siamo in un momento di passaggio in cui lo spettatore è cresciuto ed è più avanti di chi dovrebbe fargli delle proposte, cioè gli artisti, gli intellettuali e i cosiddetti operatori culturali, parola gelida che rende bene l'idea dei problemi di cui parliamo. E' questo che crea la frustrazione nel pubblico: non trovare coraggio nelle proposte. E' un problema complesso, non riguarda solo il teatro. C'è una richiesta di verità, di presenza disarmata, di generosità che viene da una parte sempre più grande della società e questa richiesta finirà inevitabilmente per suscitare ricerche e pratiche nuove, che non possono ancora trovare asilo in un ambiente teatrale per molti versi vecchio, bloccato, fermo a un'immagine di società che non c'è più. In questo senso io non mi aspetto molto dagli addetti ai lavori, un po' per questa sensazione di un passaggio radicale e un po' in generale perché diffido degli esperti, della professionalizzazione esasperata, del funzionariato. Dietro e dentro le professioni c'è l'uomo, con la sua capacità di amare, di capire, di rompere i diaframmi tra sé e gli altri, di fare comunità, di dare voce alla coscienza, di ascoltare. Ma dicendo queste cose mi accorgo di quanto sia infido ogni discorso sul potere, e quanto però sia la chiave di tutto, non ancora in senso sociale ma prima di tutto in senso individuale: è difficile essere umili, nudi perché è difficile sopportare la solitudine, è difficile superare le asprezze della purificazione, essere veri a lungo...E poi certo, ilgrande animale della socialità agonistica spinge forte, la tentazione di volare bassi te la fa venire...Però insomma, il pubblico che viene ai miei spettacoli mi consola, mi parla, mi abbraccia, mi vede. Non è poco.

"Mi sono reso conto di quanto tutto (le caratteristiche dell'architettura, lo statuto delle professioni, lo stile dell'abbigliamento, l'uso del tempo, la natura delle relazioni) sia oggi concepito a partire da un profondo disagio per qualsiasi forma di sofferenza, di ricerca della verità, di fragilità, di dolore mostrato e offerto, e dunque, in fondo, di umanità" scrivi nel tuo blog; è vero, la moderna "fobia della sofferenza" paralizza la conoscenza, blocca sul nascere ogni crescita interiore. L'arte, e il teatro in particolare, può aiutare a sbloccare questa paresi dell'anima e "aprire gli occhi" sulla realtà?

Il teatro è per me l'arte integrale, in cui potenzialmente l'essere umano può esprimersi in un linguaggio complesso, imprendibile, vivo. Il teatro usa il corpo per arrivare al pubblico, non un manufatto e questa immediatezza sarà sempre moderna. Il corpo umano è fragilissimo ma è sottile, è uno strumento infinito, infinitamente graduato. Noi lo usiamo in modo perlopiù abituale, scontato. Il grande teatro invece può mostrarci il corpo, la parola, la voce come qualcosa di nuovo, come una sorpresa: ci mostra tutto lo spazio infinito attorno ai nostri gesti e con questo allude a spazi metafisici: corporeo e spirituale collaborano, l'intuizione è fulminea, convincente, rompe le nostre difese razionali, abbatte mura, ci lascia soli di fronte a immense distese di impegno potenziale, di fronte alle quali sentiamo che abbiamo bisogno di aiuto, di amore, di grazia. Io cerco di mostrarmi in scena nudo, cioè alla ricerca, in cammino davanti a chi mi ascolta. E' importante questo elemento di verità. Non si recita affatto, nel senso comune in cui la parola è perlopiù intesa. Ci si ostende e così facendo ci si svuota, si crea un passaggio tra il pubblico e qualcosa di ulteriore. Ai miei allievi dico sempre di lavorare non spingendo verso il pubblico le voci e i gesti ma al contrario ricevendo dalla platea il calore di una presenza, che va accolta e irradiata tutt'attorno, verso l'alto. E' una direzione opposta a quella che sembra intuitivamente la più naturale: l'attore che va verso il pubblico. Io preferisco l'immagine di un attore che brucia davanti al pubblico, che si fa strumento cavo per far passare il soffio. Così il teatro ritorna rito collettivo, non più comizio o cabaret. Rispetto alla tua domanda rifletto su come davvero in questo discorso forza e fragilità abbiano significati opposti a quelli che ci aspettiamo. Una certa fragilità e passività qui diventano strumenti di forza inaudita mentre la forza, intesa come l'insieme delle volontà espressive, comunicative, delle opinioni e dei gusti estetici si rivelano piccoli strumenti sempre stonati.

Ogni replica a teatro è unica e irripetibile; sul palco irrompe una realtà "altra" a spezzare la routine del quotidiano. La stessa dinamica imprevedibile della grazia (cito sempre dal blog) che irrompe "rumorosa e inopportuna, in questo alveare blindato che sono le nostre città, le nostre vite, le nostre teste e i nostri cuori". "Cantami qualcosa pari alla vita" scriveva Mario Luzi nel 1996. E' più facile dialogare con i poeti (penso al tuo lavoro su "Eroi" di Damiani) che con i "professionisti" del mondo dello spettacolo?

Con qualsiasi professionista per me è difficile dialogare. Non ho mai sentito solidarietà di casta. La poesia è il cuore di tutto, libera dalle strutture, ti mette a contatto con la verità immediata. Eppure tutti gli artisti, poeti compresi, conoscono la tecnica del loro fare. Però si sente subito quando c'è identificazione con questa tecnica o quando c'è distacco, quando la si usa come strumento. Claudio Damiani è un esempio di questo distacco, di questo amore per la poesia come gesto puro ma è un'innocenza di ritorno perché anche Claudio conosce i ferri del suo mestiere ma appunto come tali li tratta. Mi sembra che oggi ci sia troppa fretta, che gli artisti siano stati ingannati e corrotti dalla necessità di autopromuoversi e che questa autopromozione prenda ormai tutto il tempo che dovrebbe prendere la creazione, e anzi, prima di tutto, la contemplazione. Per fare un artista ci vogliono molti anni di lavoro silenzioso, di interiorizzazione progressiva degli strumenti linguistici (dal punto di vista formale) ma dietro questo lavoro ci deve essere esperienza esistenziale, vita vissuta, vita non pubblica, non spiata, vita data, spesa, anonima fatica e cocciuta domanda di significato, tempo condiviso e fatto fruttare prima di tutto come tempo umano, non produttivo, non economico: tempo di attenzione maturata e di amore rinnovato a ogni fallimento.
Nel secolo scorso ci sono state esperienze radicali che hanno tagliato il legame storico tra il teatro e la società che lo ospitava, nel tentativo di rinnovare questo rapporto e renderlo più maturo, più sostanziale. Penso al lavoro di Jerzy Grotowski o alla danza butoh. In entrambi questi due casi l'arte dell'attore o del danzatore matura in un lungo apprendistato durante il quale si lavora su intuizioni sintetiche che sono allo stesso tempo contemporanee e antiche, libere, poetiche e che però devono molto a espressività arcaiche, a patrimoni di cultura umana preindustriale. In lavori come questi è inevitabile che, attorno alla pratica scenica, si formi anche qualcosa come una disciplina etica. Ma dal mio punto di vista il rischio è che rimanga un'etica del lavoro e non diventi decisamente un'etica delle relazioni, di cui invece c'è sempre più sete. Mario Biagini, erede del Workcenter di Jerzy Grotowski, sta in questi anni proprio mettendo alla prova questo limite, in un tentativo di consumare fin furiosamente quel patrimonio espressivo attraverso un nomadismo che metta al centro l'incontro. O, con tutti altri presupposti ed esiti, sento vicino anche il lavoro di Ilaria Drago, un'artista appartata al lavoro sul proprio territorio che ha mantenuto intatte purezza e forza poetica e che non a caso ultimamente si è confrontata sulla scena con le parole di Simone Weil. Il verso di Luzi che citi è centrale ed è la questione entusiasmante che si pone a ogni artista. Per me sfondare il muro del mestiere, aprirsi all'incontro sono cose essenziali. E quest'incontro è con l'Altro e con gli altri. Così negli ultimi anni ho imboccato prima con timidezza poi sempre con maggiore decisione la strada di un teatro sbilanciato su una protratta meditazione spirituale in forma scenica rigorosa da una parte e su l'apertura completa all'incontro e alla dissipazione professionale dall'altro.

Come procede la stesura del "Combattimento spirituale"?

Bene, direi. Mi sta accompagnando ormai da più di un anno, questo combattimento. E' una sfida perché per la prima volta cerco di portare tutto quello che ho detto finora non solo nella regia e nell'interpretazione ma anche nel lavoro di scrittura. La scrittura è un'arte pericolosa. Il nettare che lo scrittore succhia dall'attività dello scrivere è spesso un veleno. Ormai riesco a leggere solo scrittori spirituali, anche sotto mentite spoglie, perché la questione del contravveleno se la sono posta come prima cosa. Nello scrivere questo testo cerco di stare prossimo a un'ispirazione di cenere e sapone, per dir così, cioè di stare a lungo sul momento di purificazione, di non scappare dall'agone. Il primo pezzo che mi convince di tutto quanto ho scritto finora è un dialogo uomo-donna in cui, davanti a una cucina ikea (che è il set dello spettacolo) si parla di cose spirituali con la naturalezza con cui Pinter faceva parlare i suoi personaggi delle loro paranoie.
Passare da un soliloquio (la forma che ho frequentato finora nel mio 'teatro spirituale') a un dialogo è in teatro qualcosa di enorme perché ora l'interlocutore non è più implicito ma prende vita fisica propria. Ma per me non si tratta di vita psicologica ma di dialogo sui significati dell'esistenza, portato avanti da personaggi che, indipendentemente dal grado di sofferenza, di passione, di presenza che mettono in campo, riescono a dire una parola trasparente sui moventi del loro fare, a prendersi la responsabilità della propria esistenza. Ho letto da poco un bel testo di Nicola Chiaromonte che definisce il teatro la delucidazione e dimostrazione pubblica della realtà di un conflitto che i più considerano irreale o conciliabile per via di mondana prudenza. Nessuna mondana prudenza nell'affrontare la questione della spiritualità per l'uomo d'oggi, davanti alla sua cucina ikea, nessun dubbio che le questioni in campo siano reali.

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